Rapina: l’aggravante dell’uso delle armi

Nel disciplinare il delitto di rapina, l’articolo 628 del Codice Penale prevede quale aggravante l’uso delle armi, con il conseguente aumento di pena se la violenza o la minaccia è commessa, appunto, con armi.

Ma quando un’arma può definirsi tale? Non è un quesito così scontato e infatti spesso nei Tribunali ci si trova a ragionare su questo tema.

La Corte di Cassazione è giunta, a riguardo, alla conclusione per cui perchè l’aggravante dell’uso delle armi in tema di delitto di rapina sussista, non è necessario che l’autore del reato abbia fatto uso di un’arma vera e propria, destinata cioè ad offendere come è suo uso, dando infatti la giurisprudenza rilievo all’effetto intimidatorio che l’arma ha sulla persona offesa, a prescindere dal fatto che essa sia vera oppure no (si vedano, ad esempio, i numerosi casi di utilizzo di armi giocattolo).

In conclusione: ove sia utilizzata un’arma che di fatto tale non è, se però essa ha avuto un effetto intimidatorio sulla vittima, allora la rapina può dirsi aggravata dall’uso delle armi.

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Lo stalking condominiale

Poco c’è di più molesto di un vicino che interferisce nella nostra vita privata quotidiana, rendendoci invivibile quello che c’è di più caro, ossia la nostra casa e la quiete che in essa dovremmo trovare. Spesso purtroppo questa pace è violata ed è bene allora sapere che la legge ci può tutelare.

L’articolo 612 bis del Codice Penale disciplina il reato di atti persecutori (il cosiddetto “stalking”) quale condotta reiterata di chi minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.

Una forma di manifestazione del reato è costituita dal cosiddetto “stalking condominiale”, sussistente ove vi sia un condomino che esasperi i vicini tanto da costringerli a modificare le proprie abitudini di vita quotidiana per evitare le invasioni nella propria sfera di intimità e serenità personale nonché famigliare.

Il soggetto vittima di tali condotte può rivolgersi al Questore, segnalando i comportamenti molesti o, in alternativa oppure successivamente, procedere alla querela dell’autore delle molestie, essendo il reato procedibile appunto a querela della persona offesa, salvo che la vittima sia un minore o disabile, casi in cui il reato diviene procedibile d’ufficio. E’ bene ricordare che la querela va sporta entro sei mesi dal fatto che costituisce reato, termine previsto e prescritto dalla legge.

In sede di redazione della querela è possibile richiedere l’adozione di una misura cautelare ed in particolare si segnalano quelle previste dagli articoli 282 ter e 283 c.p.p., rispettivamente disciplinanti il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa ed il divieto o obbligo di dimora.

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Il Grooming: come si adesca un minore in rete

A cura dell’Avvocato Chiara Mussi

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Il termine inglese “grooming” sta ad indicare l’adescamento dei minori attraverso l’uso delle nuove tecnologie quali internet ed in particolare i social network.

Si tratta di una forma di adescamento punita dal nostro codice penale, che all’articolo 609 undecies, rubricato “adescamento di minorenni”, punisce chi adesca un minore degli anni sedici, allo scopo di commettere alcuni reati tra cui la prostituzione minorile, la violenza sessuale ed altri gravi delitti. E’ lo stesso articolo di legge a definire l’adescamento quale “atto volto a  carpire la fiducia del minore attraverso artifici, lusinghe o minacce posti in essere anche mediante l’utilizzo della rete internet o di altre reti o mezzi di comunicazione”.

Come bene si intuisce, dunque, si tratta di comportamenti posti volontariamente in essere dall’adulto adescatore per rendersi simpatico agli occhi del minore, così da carpirne la fiducia e creare un rapporto inizialmente virtuale e tendezialmente teso al contatto nella vita reale.

Forse a causa dell’accesso smodato alla rete da parte dei giovanissimi, il fenomeno del grooming è in costante crescita ed è proprio per questo che moltissimi esperti e professionisti dei settori coinvolti in questo fenomeno (avvocati, psicologi, ma anche insegnanti e non solo) svolgono una importante opera di sensibilizzazione volta anche e soprattutto ai genitori, affinchè guidino i propri figli adolescenti o poco più che bambini all’uso consapevole della rete, primo passo per tutelare la loro personalità in formazione.

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Gli ordini di protezione contro gli abusi famigliari

A cura dell’Avvocato Chiara Mussi

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La violenza in famiglia si sviluppa in maniera troppo spesso silenziosa e lenta, così da diventare purtroppo parte intergante della vita di tante persone e spesso di bambini. Forse non in molti conoscono gli strumenti utili a contrastare questo odioso fenomeno. Accanto alle “classiche” denunce alle Forze dell’Ordine per fatti costituenti reato, vi è uno strumento di natura civilistica che, in maniera tendenzialmente snella sia come procedere che come tempistica, può dare sollievo alle vittime di abuso domestico. Si tratta della disciplina degli ordini di protezione contro gli abusi famigliari, di cui agli articoli  342 bis e 342 ter c.c. e 736 bis c.p.c..

Tale disciplina permette di richiedere determinate misure a tutela della vittime di abusi in famiglia, ove la condotta dell’abusante sia causa di un grave pregiudizio all’intergità fisica o morale o alla libertà del familiare convivente.

Scopo dell’istituto è dunque quello di permettere di combattere il triste e dilagante fenomeno della violenza famigliare. Peraltro la natura cautelare del provvedimento mira  a porre le condizioni per evitare il reiterarsi di condotte che possano causare pregiudizi irreparabili alla persona.

Ma quali sono i soggetti potenzialmente coinvolti? Si è parlato di “famiglia” che qui è vista nel senso più ampio del termine, come persone conviventi e unite da un progetto di vita (famigliare appunto) unitario. Dunque, a mero titolo esemplificativo, si può trattare di: coniugi, fratelli, conviventi (etero o omosessuali), compagno/a e figli del partner e così via.

Per quanto attinente le modalità di violenza, la normativa non opera restrizioni; può trattarsi di violenza fisica, verbale, psicologica, sottomissione economica, violenza contro gli oggetti, violenza assistita e quasiasi altra forma, purchè causa di grave pregiudizio per la vittima.

Affinchè si possa procedere è bene però sapere che non vi deve essere in corso un procedimento di separazione personale tra coniugi o divorzio.

Ma di fatto cosa stabilisce il Giudice adito? Il Giudice emette un provvedimento che ha alcuni contenuti necessari ed altri eventuali. Tra i primi abbiamo l’ordine di cessazione della condotta pregiudizievole e la disposizione dell’allontanamento dell’abusante dalla casa famigliare. Sono invece eventuali il divieto di avvicinarsi a determinati luoghi frequentati dalla vittima, la richiesta di intervento di assistenti sociali e centri di mediazione famigliare per il sostegno alle vittime nonchè l’obbligo di pagamento di un assegno periodico a favore dei famigliari se, per l’effetto dell’allontamento dell’abusante, essi rimarrebbero privi degli adeguati mezzi economici. Qualora peraltro non venissero rispettati ed adempiuti gli obblighi impartiti, il giudice che ha emesso l’ordine di protezione potrebbe emettere i provvedimenti utili all’attuazione, con eventuale richiesta di intervento in ausilio della forza pubblica. Peraltro l’inosservanza degli obblighi impartiti interga il reato di cui all’art. 388 c.p., reato perseguibile a querela di parte, per cui è bene per la vittima che volesse denunciare procedere entro tre mesi dall’inosservaza del provvedimento da parte dell’obbligato.

In tema di durata del provvedimento, va ricordato che questa non può superare i sei mase, trattandosi di materia cautelare. Vi è la possibilità di richiedere però una proroga ove sussistessero gravi motivi.

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Furto al supermercato: consumazione o tentativo?

A cura dell’Avvocato Chiara Mussi

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Sottrarre beni al supermercato configura, chiaramente, il reato di furto. Spesso però ci si interroga sulla consumazione del reato o, al contrario, la sua qualificazione nella forma del tentativo, differenza di non poco conto al fine della quantificazione della pena, poichè l’art. 56 c.p. prevede che all’autore del delitto tentato sia irrogata una pena diminuita da un terzo a due terzi rispetto a quella stabilita per il reato consumato. In tema di configurabilità del tentativo nell’ipotesi di furto al supermercato avvenuto sotto la diretta osservazione dell’autore del fatto (direttamente o mediante apposite apparecchiature), con sentenza n. 52117 del 17.07.2014, La Suprema Corte a Sezione Unite ha stabilito che ove il tempestivo intervento dei soggetti a ciò preposti impedisca di fatto la consumazione del reato, esso vada inquadrato nella forma del tentativo, non avendo l’agente conseguito, neppure momentaneamente, l’autonoma ed effettiva disponibilità dei beni sottratti, non essendo gli stessi ancora usciti dalla sfera di vigilanza e controllo del soggetto passivo del reato. Resta ferma l’applicabilità dell’aggravante di cui all’art. 625 comma 1 n. 7, relativo alla commissione del fatto su cose esposte alla pubblica fede.

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Furto in auto

A cura dell’Avvocato Chiara Mussi

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La Cassazione con sentenza n. 30358/2016 ha ribadito che il furto di oggetti in auto è aggravato solo in alcuni casi per l’esposizione alla pubblica fede ex art. 625 comma 1 n. 7 c.p., alla luce del quale se il fatto è commesso su cose esposte per necessità o per consuetudine o per destinazione alla pubblica fede, la pena prevista per il furto è superiore di quella prevista per la fattispecie base di cui all’art. 624 c.p.. L’aggravante infatti rileva laddove si tratti di oggetti costituenti parte integrante del veicolo o destinati in modo durevole al servizio o all’ornamento dello stesso. Si ritorna all’operatività della fattispecie non circostanziata, di cui all’art. 624 c.p., ove si tratti di oggetti che solo occasionalmente si trovano all’interno dell’auto, poichè non costituenti il normale corredo della stessa o perchè lasciati per ragioni contingenti o per dimenticanza. La differenza tra reato non circostanziato di cui all’art. 624 c.p. e la fattispecie di cui al successivo art. 625 c.p. è particolarmente rilevante soprattutto in tema di procedibilità, poichè la fattispecie aggravata è procedibile d’ufficio, mentre quella base soltanto a querela di parte e dunque, ove si fosse vittime di un furto, sarà bene in quest’ultimo caso, sporgere la querela nei limiti di legge al fine di non incorrere nell’improcedibilità dell’azione penale.

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Rapina in abitazione

A cura dell’Avvocato Chiara Mussi

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La propria abitazione dovrebbe essere il luogo per eccellenza di serenità, tranquillità, sicurezza; ma spesso così non è e la cronaca ce lo ricorda quotidinamente. Per questo motivo abbiamo deciso di dedicare un breve approfondimento alla rapina aggravata poichè eseguita mediante l’introduzione in luogo destinato a privata dimora, la cui discpiplina di riferimento può essere individuata agli articoli 628 e 624 bis del Codice Penale.

La giurisprudenza in materia ha avuto modo di puntualizzare recentemente che, ai fini della sussistenza del reato in esame, non rilevano le modalità di introduzione nell’abitazione, come nemmeno i rapporti tra vittima, autore del reato e luogo dei fatti, sempre che siano presenti tutti gli elementi richiesti ai fini della configurabilità della fattispecie. Punto fermo è infatti la tutela rafforzata di ogni luogo di privata dimora, coincidente o meno con il luogo di residenza della vittima.

Il reato può addirittura dirsi sussistente anche laddove venga commesso da soggetto inizialmente autorizzato dal titolare dei luoghi all’ingresso nei medesimi, non putendo tale presupposto fattuale (coincidente con un atteggiamento soggettivo della futura vittima) far venir meno l’eventuale responsabilità per fatti accaduti in seguito, anche dopo un brevissimo lasso temporale (Cass. Pen. Sez. II n. 2115/2016). Infatti, ai fini della sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 628 comma 3 n. 3 bis c.p., è sufficiente che la rapina sia commessa in uno dei luoghi previsti dall’art. 624 bis c.p. (Cass. Pe. Sez. II n. 48584 del 14.12.2011).

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Violenza sessuale: l’inferiorità psichica della vittima

A cura dell’Avvocato Chiara Mussi

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L’articolo 609 bis del Codice Penale disciplina la fattispecie di reato della violenza sessuale, prevedendo una pena per chi, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o a subire atti sessuali. Medesima pena è prevista per chi induce taluno a compiere o a subire atti sessuali abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa oppure traendo la stessa in inganno per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.

L’induzione a compiere o a subire atti sessuali si realizza quando l’autore della condotta, con un’opera di persuasione che la giurisprudenza ha in più occasioni definito come sottile e subdola, spinge, istiga o convince la vittima ad aderire ad atti sessuali che diversamente non avrebbe compiuto (Cass. Pen. Sez. III n. 20776 del 03.06.2010).

La Cassazione ha più volte avuto modo di fornire anche il significato giuridico del termine “abuso”, qualificandolo quale doloroso sfruttamento da parte dell’autore del reato delle condizioni di menomazione della vittima, la quale viene strumentalizzata così da poter accedere alla sua sfera di intimità più profonda al fine di soddisfare i propri impulsi sessuali (Cass. Pen. Sez. IV n. 40795 del 03.10.2008). In particolare, indurre ad un atto sessuale mediante abuso delle condizioni di inferiorità psichiche significa approfittare e strumentalizzare tali condizioni per accedere alla sfera intima di sessualità della vittima, che diviene mero oggetto di soddifacimento degli istinti di natura sessuale dell’autore della condotta.

Una precisazione va fatta in merito alle condizioni di inferiorità psichica al momento del fatto: tale condizioni non si indentifica sempre e necessariamente con patologie mentali, essendo sufficiente che il soggetto passivo versi in condizioni intellettive e spirituali di minorata resistenza alle altrui opere di coazione psicologica dovute alle cause più diverse, tra cui, a mero titolo esemplificativo, un limitato processo evolutivo mentale e/o culturale, sempre che tali condizioni siano idonee a elidere in tutto o in parte la capacità della vittima di esprimere un valido consenso all’atto sessuale (Cass. Pen. Sez. III n. 38261 del 20.09.2007). In ogni caso è compito del giudice accertare e motivare nel caso concreto la sussistenza o meno dell’elemento della inferiorità psichica della vittima, fornendo adeguata motivazione a tal riguardo in sentenza.

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Guida in stato di ebbrezza: i lavori di pubblica utilità

A cura dell’Avvocato Chiara Mussi

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L’articolo 186 del Codice della Strada disciplina la guida sotto l’influenza dell’alcool, prevedendo tre ipotesi di infrazione: una rilevante ai fini amministrativi per tassi alcolemici tra 0,5 e 0,8 g/l e due penalmente rilevanti, rispettivamente per tassi tra 0,8 e 1,5 g/l e superiori a 1,5 g/l. Per le ipotesi di cui alle lettere b) e c), ossia quelle a rilevanza penale, sono previste la pena pecuniaria unitamente all’arresto, oltre alla sospensione della patente di guida e, per l’ipotesi più grave, anche la confisca del veicolo se di proprietà del trasgressore.

Come difendersi allora?

Tra le molteplici strategie difensive, da valutare caso per caso, rileva il comme 9 bis dell’art. 186 C.d.S., che disciplina i cosiddetti “lavori di pubblica utilità”, per cui il processo penale si sospende per un determinato periodo durante il quale il soggetto presta attività non retribuita a favore della collettività. La durata dei lavori è pari a quella della sanzione detentiva irrogata e della conversione della pena pecuniaria ragguagliando € 250 ad ogni giorno di lavori di pubblica utilità. Verificato l’esito positivo dell’opera prestata, il giudice nel corso di una apposita udienza dichiara estinto il reato. Ma i benefici non si esauriscono qui: è infatti altresì disposta la riduzione alla metà della sanzione della sospensione della patente di guida e viene revocata la confisca del veicolo, ove sequestrato. Ove male eseguito il programma, il giudice dispone la revoca della pena sostitutiva, ripristinando quella sostituita, unitamente all’intergale periodo di sospensione della patente ed alla misura di sicurezza della confisca.

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Facebook: breve guida all’uso consapevole

A cura dell’Avvocato Chiara Mussi

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Tutti noi (o quasi) utilizziamo facebook per tenerci in contatto con gli amici, informarci, divertirci, magari anche lavorare. Ma sappiamo utilizzarlo davvero bene? E’ bene innanzitutto sapere quali sono i diritti della piattaforma rispetto ai contenuti ed alle informazioni pubblicati: entrambi restano di proprietà dell’utente che li posta, con la possibilità di impostare le modalità di condivisione e ciò è facilmente gestibile attraverso l’accesso alle Impostazioni Privacy ed alle Impostazioni delle Applicazioni, con possibilità di graduare la riservatezza del materiale caricato.

Molte le responsabilità civili e/o penali che potrebbero derivare da comportamenti illeciti legati al cattivo utilizzo del social network, sebbene in questa sede ci si limiti a ricodare che molti reati sono commissibili on line con azioni di intimidazione, fastidio, molestia: diffamazione, minaccia, stalking, addirittura violenza sessuale e molti altri. Di conseguenza dobbiamo prestare molta attenzione a cosa e come pubblichiamo e a come ci rapportiamo con gli altri utenti poichè la vita on line è un risvolto, ormai, di quella reale, con tutti i vantaggi e svantaggi connessi. Attenzione dunque, oltre a quanto già detto, a non infastidire altri utenti con accessi illegali e/o molesti, non pubblicare contenuti scritti, immagini, video a carattere minatorio, pornografico, violento.

Altro limite imposto da Facebook è quello della creazione di soli account personali che corrispondano alla nosta vera identità: il social network vieta infatti la creazione di profili contenenti informazioni personali false o ancora profili per conto di altri senza autorizzazione.

Per quanto rigaurda l’utilizzo commerciale / lavorativo di Facebook, è bene sapere che per tali scopi non è ammesso l’uso del profilo personale, dovendo al contrario creare apposite pagine, scegliendo una tra le diverse categorie previste.

A tutela non degli altri ma di se stessi, è bene inoltre ricordarsi sempre di non cedere i dati di accesso al proprio profilo.

E’ fatto inoltre divieto di accesso ed utilizzo della piattaforma da parte di soggetti di età inferiore ad anni 13.

Queste dunque alcune informazioni utili per l’utilizzo corretto e consapevole di Facebook.

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