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Rapina in abitazione

A cura dell’Avvocato Chiara Mussi

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La propria abitazione dovrebbe essere il luogo per eccellenza di serenità, tranquillità, sicurezza; ma spesso così non è e la cronaca ce lo ricorda quotidinamente. Per questo motivo abbiamo deciso di dedicare un breve approfondimento alla rapina aggravata poichè eseguita mediante l’introduzione in luogo destinato a privata dimora, la cui discpiplina di riferimento può essere individuata agli articoli 628 e 624 bis del Codice Penale.

La giurisprudenza in materia ha avuto modo di puntualizzare recentemente che, ai fini della sussistenza del reato in esame, non rilevano le modalità di introduzione nell’abitazione, come nemmeno i rapporti tra vittima, autore del reato e luogo dei fatti, sempre che siano presenti tutti gli elementi richiesti ai fini della configurabilità della fattispecie. Punto fermo è infatti la tutela rafforzata di ogni luogo di privata dimora, coincidente o meno con il luogo di residenza della vittima.

Il reato può addirittura dirsi sussistente anche laddove venga commesso da soggetto inizialmente autorizzato dal titolare dei luoghi all’ingresso nei medesimi, non putendo tale presupposto fattuale (coincidente con un atteggiamento soggettivo della futura vittima) far venir meno l’eventuale responsabilità per fatti accaduti in seguito, anche dopo un brevissimo lasso temporale (Cass. Pen. Sez. II n. 2115/2016). Infatti, ai fini della sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 628 comma 3 n. 3 bis c.p., è sufficiente che la rapina sia commessa in uno dei luoghi previsti dall’art. 624 bis c.p. (Cass. Pe. Sez. II n. 48584 del 14.12.2011).

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Violenza sessuale: l’inferiorità psichica della vittima

A cura dell’Avvocato Chiara Mussi

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L’articolo 609 bis del Codice Penale disciplina la fattispecie di reato della violenza sessuale, prevedendo una pena per chi, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o a subire atti sessuali. Medesima pena è prevista per chi induce taluno a compiere o a subire atti sessuali abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa oppure traendo la stessa in inganno per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.

L’induzione a compiere o a subire atti sessuali si realizza quando l’autore della condotta, con un’opera di persuasione che la giurisprudenza ha in più occasioni definito come sottile e subdola, spinge, istiga o convince la vittima ad aderire ad atti sessuali che diversamente non avrebbe compiuto (Cass. Pen. Sez. III n. 20776 del 03.06.2010).

La Cassazione ha più volte avuto modo di fornire anche il significato giuridico del termine “abuso”, qualificandolo quale doloroso sfruttamento da parte dell’autore del reato delle condizioni di menomazione della vittima, la quale viene strumentalizzata così da poter accedere alla sua sfera di intimità più profonda al fine di soddisfare i propri impulsi sessuali (Cass. Pen. Sez. IV n. 40795 del 03.10.2008). In particolare, indurre ad un atto sessuale mediante abuso delle condizioni di inferiorità psichiche significa approfittare e strumentalizzare tali condizioni per accedere alla sfera intima di sessualità della vittima, che diviene mero oggetto di soddifacimento degli istinti di natura sessuale dell’autore della condotta.

Una precisazione va fatta in merito alle condizioni di inferiorità psichica al momento del fatto: tale condizioni non si indentifica sempre e necessariamente con patologie mentali, essendo sufficiente che il soggetto passivo versi in condizioni intellettive e spirituali di minorata resistenza alle altrui opere di coazione psicologica dovute alle cause più diverse, tra cui, a mero titolo esemplificativo, un limitato processo evolutivo mentale e/o culturale, sempre che tali condizioni siano idonee a elidere in tutto o in parte la capacità della vittima di esprimere un valido consenso all’atto sessuale (Cass. Pen. Sez. III n. 38261 del 20.09.2007). In ogni caso è compito del giudice accertare e motivare nel caso concreto la sussistenza o meno dell’elemento della inferiorità psichica della vittima, fornendo adeguata motivazione a tal riguardo in sentenza.

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Tenuità del fatto: applicabile alla guida in stato di ebbrezza

A cura dell’Avvocato Chiara Mussi

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L’articolo 131 bis c.p. disciplina l’istituto della tenuità del fatto, in base al quale, sussistendo i presupposti di legge, la punibilità per il fatto commesso è esclusa. Tali presupposti sono: pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni; offesa tenue valutata sulla base delle modalità della condotta e dell’esiguità del danno o del pericolo; comportamento non abituale. L’offesa non può mai dirsi tenue se: l’autore ha agito per motivi abietti o futili o con crudeltà o adoperando sevizie o ancora se ha profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima o se la condotta tenuta ha cagionato (o se da essa è derivata quale conseguenza non voluta) la morte o lesioni gravissime di una persona.

La Corte di Cassazione, investita della questione, ha dovuto affrontare il tema dell’applicabilità dell’istituto della tenuità del fatto ai reati che prevedono soglie di punibilità, quale l’art. 186 C.d.S., che disciplina la guida in stato di ebbrezza, stabilendo alla lettera a) un comportamento punito con la sola sanzione amministrativa ed alle lettere b) e c) due ipotesi penalmente rilevanti per tassi rispettivamente tra 0,8 g/l e superiori a 1,5 g/l..

Secondo la Suprema Corte non vi sarebbe ostacolo all’applicabilità del predetto istituto a fattispecie di pericolo astratto con soglie di punibilità quale l’art. 186 C.d.S. (Cass.  Pen. SSUU n. 13681 del 06.04.2016). Chiaramente tanto più ci si allontana dal valore soglia, tanto maggiore sarà la possibilità che il fatto non sia considerato di particolare tenuità ai fini dell’applicazione dell’art. 13 bis c.p.

Ciò che la Suprema Corte sottolinea è l’impossibilità di escludere in astratto l’applicabilità dell’istituto in esame, posto che in ogni caso concreto aìndrà valutato se possa dirsi o meno compatibile la tenuità del fatto all’ipotesi in oggetto, considerando tutti i criteri di riferimento di cui all’art. 131 bis c.p..

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Facebook e diffamazione

A cura dell’Avvocato Chiara Mussi

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Ormai tutti (o quasi) per le più svariate ragioni utilizzano i social network e a primeggiare sembra essere ancora facebook. Se è vero che la rete è un luogo privilegiato per conoscere persone, condividere esperienze e, oggi più che mai, muovere il mercato del lavoro, è atrettanto vero che on line, così come nella vita reale, è possibile commettere (e quindi essere vittima di) reati. In particolare in questo contributo ci si vuole dedicare alla diffamazione, fattispecie prevista e punita dall’articolo 595 c.p. che descrive la condotta di chi, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione. Le pene sono peraltro più severe per chi reca l’offesa con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità. Ebbene, la giurisprudenza è concorde ed unanime nel sostenere che la diffamazione a mezzo facebook rientri nell’applicabilità della citata aggravante, con la conseguenza della possibilità di un aumento di pena per chi tiene una condotta diffamatoria utilizzando il citato social network e ciò sia che la frase a contenuto diffamatorio sia contenuta in un post, emerga nel corso di una conversazione, sia pubblicata sulla propria bacheca o altro. La sussistenza di quanto sostenuto deriva dal fatto che la diffusione di un messaggio attraverso lo strumento “facebook” ha la capacità potenziale di raggiungere un numero indeterminato di persone (Cass. Pen. Sez. I n. 24431 del 28.04.2015). Limite alla rilevanza penale dei contentuti postati resta sempre la libertà di manifestazione del proprio pensiero, garantita dall’art. 21 Cost.., che però non permette, come è evidente, di intaccare la reputazione di ciascuna persona.

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Violenza sessuale: una particolare ipotesi di configurazione del reato

A cura dell’Avvocato Chiara Mussi

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L’articolo 609 bis del Codice Penale punisce chi, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali. Così recita il primo comma della norma citata, integrante il reato di violenza sessuale.

Ma cosa si intende nel concreto per “violenza”? Nei tribunali se ne discute giornalmente ed ogni caso è ovviamente a sè ed un tema fondamentale intorno a cui ruota la configurabilità o meno del reato è il concetto di consenso. Si è a tal propostito espressa di recente la Suprema Corte, affermando che un rapporto iniziato consensualmente, ma proseguito con modalità diverse da quelle volute, o addirittura venuto meno il consenso inziale di una parte, comporta l’integrazione del reato di cui all’art. 609 bisc.p. (Cass. Pen. Sez. III n. 9221 del 07.03.2016). Infatti, perchè il rapporto possa dirsi consensuale, è necessario che la volontà dei partecipanti sia piena e completa nella globalità del rapporto e ciò a livello qualitativo e temporale.

Accade infatti di frequente che un iniziale consenso si trasformi in dissenso nel corso del rapporto e ciò per le più svariate ragioni, che fondano uno degli elementi del reato in discussione, intergando la fattispecie di violenza sessuale, posto che la libertà sessuale va tutelata quale libertà di espressione e di autodeterminazione afferente alla sfera esistenziale della persona e tale libertà è e deve essere inviolabile.

La Suprema Corte parla di “collaborazione” reciproca tra i soggetti coinvolti nel rapporto sessuale, collaborazione che, sempre a detta della Corte di Cassazione, deve permanere senza soluzione di continuità per l’intera durata del rapporto; ove così non fosse, fermo restando la presenza degli altri elementi della fattispecie, potrebbe sussistere il reato di violenza sessuale, di cui all’articolo 609 bis del Codice Penale.

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Vittima di un reato: come agire

A cura dell’Avvocato Chiara Mussi

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Quando si è vittima di un reato, spesso non si sa come agire e a chi rivolgersi. Ecco allora una breve guida esplicativa.

Innanzitto distinguiamo i reati procedibili d’ufficio e a querela di parte. Dei primi fanno parte quei reati denunciabili da chiunque (e quindi non solo dalla vittima del reato) e procedibili a prescindere dalla presentazione della denuncia. Sono i reati più gravi per i quali, data appunto la gravità, le Autorità procedono indipendentemente dall’azione o volontà della vittima del reato medesimo. SI dicono invece procedibili a querela quei reati che necessitano l’intervento della persona offesa dal reato perchè si possa procedere e ciò accade, appunto, con la presentazione dell’atto di querela.

Come, dove e quando può essere sporta la querela?

Innanzitutto le modalità: la querela, ossia la dichiarazione con la quale si manifesta la volontà che si proceda in ordine ad un fatto previsto dalla legge come reato, può essere presentata oralmente o per iscritto, personalmente o per mezzo di un proprio procuratore speciale e va indirizzata agli appositi uffici siti presso le Procure della Repubblica o presso gli uffici di polizia (genericamente detti): polizia, carabinieri…

Titolare del diritto di querela è ongi persona offesa da un reato per cui non si debba procedere d’ufficio.

Attenzione ai tempi per la proposizione della querela: la regola generale (con alcune eccezioni) prevede infatti che si possa sporgere la querela entro tre mesi dal giorno della notizia del fatto che costituisce reato.

E se la persona offesa è un minore? In questo caso vanno distinte due ipotesi: la prima riguarda i minori degli anni 14 e la seconda i minori tra i 14 ed i 18 anni. Nel primo caso il diritto di querela è esercitato dai genitori o dal tutore; nella seconda ipotesi, il diritto di querela spetta anche al minore.

E se cambio idea dopo aver sporto la querela? La disciplina generale (con eccezioni che prevedono l’irrevocabilità della querela sporta) preveda che si possa rimettere la querela, ovvere ritirarla dopo averla sporta. La remissione può essere espressa o tacita. Nel primo caso la stessa consiste in una dichiarazione sottoscritta dal querelante e presentata personalmente o per mezzo di procuratore speciale; per remissione tacita si intende invece il caso in cui il querelante tenga comportamenti incompatibili con la volontà di propseguire nell’intento punitivo. Affinchè abbia efficacia, la remissione della querela deve essere accettata (con le formalità previste dalla legge) dal querelato. Effetto della remissione della querela (con conseguente accettazione) è l’estinzione del reato.

Lo Studio Legale Mussi offre servizio di consulenza stragiudiziale ed assistenza giudiziale in materia, accompagnando la vittima del reato dalla redazione dell’atto di denuncia – querela, sino all’eventuale corso del proceso penale. Per maggiori informazioni e contatti cliccate qui.

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