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Furto lieve per bisogno

Un grave stato di indigenza può portare alla disperazione e questa, a sua volta, può indurre a commettere dei piccoli furti, quelli che la legge chiama “furti per bisogno”.

Ma quando un furto può essere definito tale? Non solo la cosa sottratta deve essere di tenue valore, dovendo altresì essere diretta a soddisfare un grave ed urgente bisogno, che non necessariamente deve avere natura alimentare, ben potendo consistere in beni di altra natura e categorizzazione. Occorre altresì una particolare condizione soggettiva del soggetto agente, ossia uno stato di grave e non dilazionabile bisogno, stato che non può che eliminarsi se non appropriandosi della cosa altrui.

Peraltro lo stato grave di bisogno può essere sia proprio che altrui: pensiamo al banale esempio di una madre che sottrae del latte per il figlio o una coperta per ripararlo dal freddo invernale. Condizione fondamentale resta quella per cui non soddisfacendo il bisogno tramite la sottrazione della cosa si determinerebbe un danno o un pericolo in capo ad un soggetto.

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Violenza assistita: quando i minori percepiscono la commissione di un reato

Accade troppo spesso che i minori assistono ad atti violenti o comunque costituenti reato; si parla allora di “violenza assistita” quando un minore si trova costretto, suo malgrado, ad assistere alla commissione di un reato nei confronti di un altro soggetto o comunque ne percepisca la commissione.

Il fatto stesso che il minore percepisca la commissione del reato, rende infatti  la condotta criminosa più grave e dunque punita più gravemente: pensiamo a tutti i casi di violenza domestica a cui sono costretti ad assistere giorno dopo giorno piccoli indifesi. Proprio per questo la legge ha, tra gli altri strumenti, previsto la cosiddetta violenza assistita quale aggravante di una lunga serie di reati (cfr. art. 61 n. 11 quinquies del codice penale).

Ma la giurisprudenza ha sostenuto qualcosa di più: se il minore percepisce il reato, non solo lo stesso è aggravato, ma addirittura ne diventa vittima primaria anche il minore e dunque lo stesso, quale danneggiato dal reato, potrà costituirsi parte civile nel processo penale.

Per inciso, si vuole ricordare che atti di violenza non sono considerati solo quelli fisici, bensì anche quelli di natura psicologica o di altro genere: sudditanza economica,  continua umiliazione, vessazioni ed altri innumerevoli condotte riconducibili nell’alveo degli atti violenti.

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Amministratore di condominio e proposizione di querela

Tanti sono i compiti dell’Amministratore di Condominio, ma quando si tratta di proposizione di querele nei confronti di soggetti che si presume abbiamo leso il condominio, va fatta chiarezza su ciò che può o non può fare l’Amministratore.

Ci viene in aiuto una pronuncia della Corte di Cassazione che afferma che è necessario uno specifico incarico conferito all’Amministratore perchè la presentazione della querela da parte sua, in relazione ad un reato commesso a danno del patrimonio condominiale, sia valida (Cass. Pen. Sez. VI n. 2347).

Vediamo perchè la Corte è giunta ad una tale conclusione.

Innanzitutto va ricordato che il condominio degli edifici è uno strumento di gestione collegiale degli interessi comuni dei condomini e dunque quando uno di questi interessi è leso, la volontà di procedere penalmente nei confronti dell’autore della lesione deve emergere dallo strumento di gestione collegiale del condominio, ossia l’assemblea.

Infatti l’Amministratore, in qualità di mandatario dei condomini, esplica varie attività esecutive e gestionali in autonomia, in virtù del mandato conferito, ma il potere di presentare una querela esula dai predetti atti e dunque perchè possa procedere nei confronti dell’autore (o supposto tale) di un reato, l’Amministratore deve ricevere uno speciale e specifico mandato da parte dell’Assemblea, la quale manifesta così in maniera esplicita la volontà di perseguire penalmente l’autore del fatto.

Resta ferma la facoltà di ciascun condomino di proporre validamente una querela in riferimento ad un reato che si reputi abbia cagionato un danno al condominio.

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Infortuni sul lavoro: la (cor)responsabilità del lavoratore

In materia di infortuni sul lavoro si tende spesso a incolpare con facilità i datori di lavoro che, sebbene titolari di una posizione di garanzia nei confronti dei lavoratori, non sempre possono o devono essere ritenuti completamente responsabili degli infortuni accorsi sul luogo di lavoro.

Gioca un ruolo fondamentale l’eventuale comportamento abnorme del lavoratore.

L’attuale sistema in materia antinfortunistica viene infatti definito “collaborativo”, per evidenziare la ripartizione di obblighi tra più soggetti, tra cui anche gli stessi lavoratori accanto ai datori di lavoro.

Si parla allora di comportamento “esorbitante” in riferimento a quelle condotte che fuoriescono dall’ambito delle mansioni, ordini e disposizioni impartiti dal datore di lavoro nell’ambito del contesto lavorativo. Si definisce poi “abnorme” la condotta imprevedibile posta in essere dal lavoratore al di fuori del contesto lavorativo e che nulla ha a che vedere con l’attività che gli compete.

La normativa impone ai lavoratori di agire con diligenza, prudenza e perizia nello svolgimento delle proprie attività, osservando le imposte regole cautelari.

Nelle ipotesi di infortunio sul lavoro, la giurisprudenza tende sempre con maggior frequenza a seguire ed applicare il cosiddetto “principio di autoresponsabilità del lavoratore” e dunque il datore di lavoro smette in buona sostanza di avere un obbligo di vigilanza assoluta sul lavoratore, ma al contrario, una volta forniti tutti i mezzi necessari alla prevenzione dagli infortuni sul lavoro, egli non sarà più tenuto a rispondere dall’evento lesivo se derivante da una condotta imprevedibilmente colposa del lavoratore.

Certo è che, pur a fronte di un comportamento imprudente del lavoratore, in assenza di adeguata e puntuale adozione dei mezzi di prevenzione da parte del datore di lavoro, quest’ultimo rimarrebbe responsabile (o corresponsabile) dell’evento.

Quelli richiamati sono chiaramente principi generali, restando evidente che ogni caso concreto va valutato nella sua peculiarità.

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Sospensione condizionale della pena e risarcimento del danno

Condanna penale e ora che si fa, si va in carcere? Non sempre (anzi quasi mai) e comunque certamente no se si è nelle condizioni di poter beneficiare della sospensione condizionale della pena, prevista e disciplinata dall’articolo 163 del codice penale, beneficio in base al quale il giudice può ordinare la sospensione dell’esecuzione della pena per cinque anni se si tratta di delitto e due anni se si tratta di una contravvenzione.

In alcuni casi il giudice può subordinare la concessione del beneficio all’adempimento di determinati obblighi, come il pagamento di somme di denaro a favore delle parti civili, quale risarcimento danni.

Attenzione però: se il pagamento non dovesse avvenire nei termini stabiliti, il giudice potrebbe richiedere la revoca del beneficio della sospensione condizionale della pena, dando così avvio all’iter di esecuzione della medesima.

Una domanda sorge allora spontanea: è possibile contrastare la richiesta di revoca? Sì, ove però venga fornita al giudice dell’esecuzione la prova di trovarsi nell’impossibilità economica di far fronte all’obbligo di pagamento.

Tale tesi è sostenuta da un consolidato orientamento giurisprudenziale che stabilisce quanto segue: “in tema di sospensione condizionale della pena subordinata al risarcimento dei danni, l’assoluta impossibilità ad adempiere, accertata dal giudice dell’esecuzione, impedisce la revoca del beneficio” (Cass. Pen. Sez. I n. 43905/2003).

Da quanto detto, emerge che lo stato di indigenza non arbitrariamente procurato dall’obbligato o comunque oggettivo può dunque rilevare ai fini della decisione del giudice dell’esecuzione di non revocare il beneficio in precedenza concesso dal giudice di merito.

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Querela presentata: e poi?

Denunciare è un diritto, come anche lo è interessarsi successivamente dell’eventuale processo penale che si instaura nei confronti del supposto autore del reato.

L’articolo 120 del Codice Penale disciplina infatti il diritto di querela, stabilendo che titolare del diritto è la persona offesa dal reato e specificando le particolari ipotesi di vittime minori, interdetti ed inabilitati.

A seguito del deposito dell’atto di denuncia – querela si avvia il procedimento penale e la persona offesa ha un ruolo attivo nel processo. Ma cosa può o deve fare?

La Corte di Cassazione si è trovata ad affrontare il quesito se configuri o meno remissione tacita di querela la mancata comparizione in udienza del querelante, ove avvertito dal giudice che l’assenza sarebbe stata interpretata come condotta incompatibile con la volontà di procedere e dunque quale remissione tacita di querela.

La risposta al quesito è stata in senso positivo (si veda da ultimo Cass. Pen. Sez. V ordinanza n. 18988/16). Può dunque ragionevolmente affermarsi che la mancata comparizione del querelante preavvertito del fatto che l’assenza in udienza possa essere interpretata quale carenza di volontà nel proseguire nell’intento punitivo, integri una ipotesi di remissione tacita di querela, esprimendo tale comportamento una libera e consapevole scelta del querelante in tal senso.

A quali conclusioni si può dunque giungere? Sicuramente si può affermare che il querelante, ove voglia insistere nell’intento punitivo nei confronti del presunto autore del reato, debba partecipare, quantomeno con la propria mera presenza, al processo che lo vede quale persona offesa dal reato.

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Furto al supermercato e destrezza

I furti al supermercato sappiamo bene che sono all’ordine del giorno; e lo sono anche nei tribunali, tanto che spesso ci si interroga su questioni ad essi inerenti.

In particolare si discute spesso dell’aggravante della destrezza, prevista dall’art. 625 n. 4 del Codice Penale.

La Corte di Cassazione ha recentemente affrontato il tema, stabilendo che non sussisterebbe l’aggravante della destrezza ex art. 625 n. 4 c.p. nell’ipotesi di furto tentato al supermercato tramite occultamento della merce, posto che per la configurazione della predetta aggravante è necessario non solo l’uso di una particolare abilità, dovendo altresì la modalità della condotta concretizzarsi in un quid pluris rispetto alle consuete modalità di concretizzazione del fatto di reato (Cass. Pen. Sez. V n. 40262/16). E dunque il mero impossessamento della res incustodita non farebbe scattare l’aggravante, riscontrabile invece nelle ipotesi di commissione del fatto in condizioni di minorata difesa. E’ perciò richiesta la prova dell’approfittamento da parte dell’agente di una condizione favorevole in rapporto allo stato contingente, come ad esempio l’avere la vittima distolto per un breve lasso di tempo la vigilanza sul bene oggetto del reato.

Si può dunque concludere per l’esclusione dell’aggravante ex art. 625 n. 4 c.p. nell’ipotesi di furto al supermercato tramite occultamento della merce.

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Abusivo esercizio di una professione: è sempre reato?

L’articolo 348 del Codice Penale prevede il reato di abusivo esercizio di una professione, punendo chi esercita una professione sprovvisto della richiesta abilitazione da parte dello Stato quali, ad esempio, il conseguimento di un titolo di studio o il mancato superamento del prescritto esame di Stato utile ad ottenere l’abilitazione all’esercizio di una determinata professione.

Una recente pronuncia della Suprema Corte ha affrontato un caso relativo ad una imputazione ex art. 348 c.p., ribadendo in sentenza che oggetto della tutela di cui all’art. 348 c.p., è costituito dall’interesse generale, riferito alla pubblica amministrazione, a che determinate professioni per il cui esercizio sono richiesti particolari requisiti, vengano esercitate da chi abbia conseguito una speciale abilitazione amministrativa e dunque risulti in possesso delle qualità morali e culturali richieste dalla legge.

E’ evidente allora come la tutela in esame si estenda soltanto agli atti, come si dice in sentenza, “propri” o “tipici” delle suddette professioni e non anche agli atti connessi all’esercizio professionale, ma che difettano della tipicità richiesta, ben potendo essere posti in essere da qualsiasi interessato (Cass.Pen. Sez. II n. 38752/16).

Si può dunque concludere nel senso che il reato di abusivo esercizio di una professione ex art. 348 c.p. sussista ove un soggetto compia atti propri e tipici di una professione del cui titolo di abilitazione ai fini dell’esercizio sia sprovvisto.

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Il Grooming: come si adesca un minore in rete

A cura dell’Avvocato Chiara Mussi

www.avvocatomussi.it     chiara@avvocatomussi.it

Il termine inglese “grooming” sta ad indicare l’adescamento dei minori attraverso l’uso delle nuove tecnologie quali internet ed in particolare i social network.

Si tratta di una forma di adescamento punita dal nostro codice penale, che all’articolo 609 undecies, rubricato “adescamento di minorenni”, punisce chi adesca un minore degli anni sedici, allo scopo di commettere alcuni reati tra cui la prostituzione minorile, la violenza sessuale ed altri gravi delitti. E’ lo stesso articolo di legge a definire l’adescamento quale “atto volto a  carpire la fiducia del minore attraverso artifici, lusinghe o minacce posti in essere anche mediante l’utilizzo della rete internet o di altre reti o mezzi di comunicazione”.

Come bene si intuisce, dunque, si tratta di comportamenti posti volontariamente in essere dall’adulto adescatore per rendersi simpatico agli occhi del minore, così da carpirne la fiducia e creare un rapporto inizialmente virtuale e tendezialmente teso al contatto nella vita reale.

Forse a causa dell’accesso smodato alla rete da parte dei giovanissimi, il fenomeno del grooming è in costante crescita ed è proprio per questo che moltissimi esperti e professionisti dei settori coinvolti in questo fenomeno (avvocati, psicologi, ma anche insegnanti e non solo) svolgono una importante opera di sensibilizzazione volta anche e soprattutto ai genitori, affinchè guidino i propri figli adolescenti o poco più che bambini all’uso consapevole della rete, primo passo per tutelare la loro personalità in formazione.

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Furto al supermercato: consumazione o tentativo?

A cura dell’Avvocato Chiara Mussi

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Sottrarre beni al supermercato configura, chiaramente, il reato di furto. Spesso però ci si interroga sulla consumazione del reato o, al contrario, la sua qualificazione nella forma del tentativo, differenza di non poco conto al fine della quantificazione della pena, poichè l’art. 56 c.p. prevede che all’autore del delitto tentato sia irrogata una pena diminuita da un terzo a due terzi rispetto a quella stabilita per il reato consumato. In tema di configurabilità del tentativo nell’ipotesi di furto al supermercato avvenuto sotto la diretta osservazione dell’autore del fatto (direttamente o mediante apposite apparecchiature), con sentenza n. 52117 del 17.07.2014, La Suprema Corte a Sezione Unite ha stabilito che ove il tempestivo intervento dei soggetti a ciò preposti impedisca di fatto la consumazione del reato, esso vada inquadrato nella forma del tentativo, non avendo l’agente conseguito, neppure momentaneamente, l’autonoma ed effettiva disponibilità dei beni sottratti, non essendo gli stessi ancora usciti dalla sfera di vigilanza e controllo del soggetto passivo del reato. Resta ferma l’applicabilità dell’aggravante di cui all’art. 625 comma 1 n. 7, relativo alla commissione del fatto su cose esposte alla pubblica fede.

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